Non è oggi, ma è come se lo fosse: per sempre


29 maggio 1985, Stade du Heysel, Bruxelles

Qui ricordiamo
le 39 vittime di Bruxelles
il 29 - 5 - 1985 trucidate
da brutale violenza.
Quando onore, lealtà, rispetto
cedono alla follia,
è tradita
ogni disciplina sportiva.
Alla nostra memoria
il compito
di tenerla viva


(Giovanni Arpino)

La danza che riscatta una carriera


25 maggio 2013, Wembley Stadium, Londra

Arjen Robben segna il gol della vittoria del Bayern contro il Borussia. Soprattutto, segna il gol della sua vita da giocatore, finalmente decisivo dopo tanti errori. Lo avevamo sbertucciato anche noi dopo la sfortunata finale del 2012 [vedi]. Oggi siamo felici del suo meritato riscatto.

Il Gallo e il Grifone


23 maggio 2013, Genova

Le identità: cappello e sigaro, Bibbia e Costituzione, e il Grifone

Don Andrea Gallo | Il saluto del Genoa CFC | I Rossoblu

Ma il n° 1 chi è?


Città del Vaticano, 21 maggio 2013

News.va

Continuità e trasformazioni


21 maggio 2013

La foto è stata elaborata da Dosy Sod e premiata da The Guardian

Il saluto del Mancio


"Manchester Evening News", 18 maggio 2013

Ciuffo, sciarpa e trofei: elegante come quando giocava

Basta, voglio giocare!


Las Palmas de Gran Canaria, 14 maggio 2013

Il nostro piccolo eroe si chiama Alejandro Rodríguez Macías e ha cinque anni. Vuole solo giocare a calcio e divertirsi. Nonostante la stupidità di due adulti che litigano (un allenatore e un arbitro).

Ultra globale


Parigi-Mondo, 13 maggio 2013

Commentando i vergognosi cori razzisti degli ultras della Roma allo stadio di San Siro contro Mario Balotelli e Kevin Boateng - che hanno portato alla sospensione, sia pure simbolica, di Milan-Roma del 12 maggio 2013 [leggi] -, Arrigo Sacchi ha usato in televisione le stesse parole che aveva già adoperato il 2 settembre 2011 in un’intervista al Corriere della Sera: “I nostri stadi sono carceri a cielo aperto, sono la fotografia dell'Italia e del suo calcio. Oggi gli incivili si trovano bene allo stadio” [leggi]. Parole semplici e fondate: il calo costante, da anni, di presenze negli stadi del nostro paese si spiega anche, se non soprattutto, per questi motivi (meno pregnante è invece l’argomento della loro “scomodità”, perché gli stessi impianti erano invece pienissimi negli anni 1980s e 1990s). Basti pensare all’episodio più recente, prima degli ululati di San Siro: la guerra dei razzi tra gli ultras atalantini e juventini che ha determinato la sospensione di Atalanta-Juventus allo Stadio Atleti Azzurri d’Italia l’8 maggio 2013 [vedi].

Il problema sono i delinquenti che hanno trovato nell’identità della militanza calcistica una nuova dimensione. Sulla materia esiste ormai una ridondante letteratura. A noi basti qui ricordare l’analisi antropologica che ne diede Desmond Morris agli albori del fenomeno, quando descrisse le “tribù” del calcio [leggi], perché mise a nudo l’inestricabile nesso tra calcio e violenza. Forse alcuni se le sono dimenticate, ma le immagini degli ultras dello Zenit San Pietroburgo che festeggiarono il 28 aprile 2012 lo scudetto russo distruggendo lo Stadio Petrovskij [vedi], dicono tutto, senza la necessità di ulteriori commenti.

Senza tornare sulle stragi egiziane [vedi 01-02], sulle violenze ormai endemiche del futbol argentino, avvitato in una spirale senza fine [vedi], sui pestaggi della polizia brasiliana [vedi], non si può dimenticare come il 3 dicembre 2012, su un campo giovanile, ad Almere, vicino ad Amsterdam, tre giocatori di 15-16 anni abbiano ucciso a calci un guardalinee [vedi], o come il 21 febbraio scorso durante la partita di Copa Libertadores tra San José e Corinthians allo stadio Jesús Bermúdez di Oruro in Bolívia, sia stato ucciso un ragazzo di 14 anni, colpito all’occhio destro da un bengala lanciato dagli ultras brasiliani [vedi]. Di questi giorni è la notizia che la polizia italiana ha identificato e arrestato alcuni dei responsabili che il 1° dicembre 2012 parteciparono al pestaggio di un malcapitato (in senso etimologico) tifoso (non un ultra) della Juventus, riducendolo in fin di vita [vedi]. Abbiamo anche visto riaffacciarsi l’hooliganismo a Wembley il 13 aprile 2013 [vedi]), e la stessa Bundesliga - agli allori mediatici di queste settimane - convive con la violenza strisciante [vedi 01-02].

A Parigi, la nuova proprietà quatariota del PSG ha adottato la linea inglese (post thatcheriana [vedi]) di tagliare i ponti con gli ultras, abolendo tutte le rendite di posizione che si erano incrostate per anni, ed alzando i prezzi dei biglietti di accesso allo stadio. Il risultato è stato l’allontanamento delle frange delinquenziali dal Parc de Princes, ma certo non la loro scomparsa. La guerriglia di lunedì 13 maggio 2013 - di cui erano state fatte le prove generali il 5 novembre 2012 la sera prima della partita di Champions League tra PSG e Dinamo Zagabria [vedi] - che ha messo a ferro e fuoco una vasta area della Parigi commerciale e touristica - con oltre 30 feriti e 20 arresti (la foto ne descrive bene il clima) - è la conferma che il fenomeno non ha frontiere. Soprattutto, che tende a fondersi con le trasformazioni sociali che la crisi economica e politica dell’Occidente globalizzato sta ridefinendo in termini nuovi [si legga la ricca analisi di “So Foot”].

Siamo ormai all’ultra globale dell’Ultracalcio [vedi]. E’ bene prenderne coscienza, perché la pratica agonistica non potrà non risentirne a lungo andare.

L’omaggio della Sir Alex Ferguson Stand


12 maggio 2013, Old Trafford, Manchester

Ardue metafore


Italia, 11 maggio 2013

Come è noto, è molto diffuso l’aforisma - con coniazione attribuita a un intellettuale da bar, sigarette e alcolici (ergo esistenzialista) come Jean-Paul Sartre - che vuole il calcio come “metafora della vita” [vedi]. In realtà è sempre più evidente il contrario, come rilevò anni fa con sprezzo un altro intellettuale come Sergio Givone [vedi]: è la vita ad essere metafora del calcio.

Se guardiamo al linguaggio politico italiano ne troviamo ogni giorno conferma. Da ultimo il presidente del consiglio, Enrico Letta, che porta in convento la sua “squadra” di ministri per “fare spogliatoio” (litigioso e già diviso alla prima di campionato). 

Il meglio (eufemismo) però lo sta dando un partito allo sbando come il PD che per descrivere le sue anime diverse (e divise) si rifà al calcio inglese. Aveva dapprima cominciato Matteo Renzi sostenendo che il 2013 passerà alla storia “per i due papi in Vaticano e per la ‘rottamazione’ di Alex Ferguson dal Manchester United” e aggiungendo: "Il governo o lo subiamo o lo sosteniamo con le nostre idee. Se lo subiamo regaliamo un altro calcio di rigore a Berlusconi” [leggi]. Enrico Letta gli ha contrapposto la metafora (che si suppone più laburista [ma vedi qui in calce]) del Liverpool. Rivolgendosi al neo segretario del PD, Guglielmo Epifani, Letta ha affermato: “Visto che Renzi ha citato il Manchester United io citerò il Liverpool con il suo slogan ‘You’ll never walk alone’” [leggi e ascolta].

A ben vedere, il PD è la metafora dell’Inter: senza progetto, dilaniato dalle fazioni, con i militanti abbandonati a se stessi, la presupponenza dei dirigenti, le sconfitte una dietro l’altra come unica prospettiva, l’angoscia del risultato, i giovani turchi …

Il primo che ebbe chiara la visione di come la vita politica fosse una grande metafora calcistica - una variante schmittiana (amici contro nemici), se vogliamo nobilitarla insieme col Filosofo di Setubal [vedi] - fu Silvio Berlusconi con la sua “scesa in campo” (equivocata dal babbo di Roberto Benigni, abituato dall’infanzia contadina a non avere in casa la toilette) al grido di “Forza Italia!”. Non è un caso che ai playoff 2013 ha rivinto lui. Nello stupore solo dei Nesci. Altro che football inglese …

- - -

Sul presunto “laburismo” del Liverpool e di You‘ll never walk alone [leggi] un “controcanto sociale”, informato e puntuto: Liverpool “fu anche il luogo dove per la prima volta nella storia dell’Inghilterra la polizia usò i gas lacrimogeni contro i civili, nel 1981, quando i portuali protestavano per la crisi dovuta all’uso dei container che produsse moltissima disoccupazione. Fu lì che nacquero gli skinhead, che trovarono in quella canzone, in quelle parole, il cemento identitario per riunirsi, protestare, vivere insieme, ubriacarsi e andare allo stadio. Gli skinhead, come è noto, erano lavoratori delle fabbriche o del porto che avevano i capelli rasati per via dei pidocchi, mettevano gli anfibi come scarpe antinfortuni e indossavano i jeans attillati affinché non si impigliassero nei macchinari a trascinamento. Tra gli hooligans c’erano moltissimi skin, sopratutto in quel ventennio 70/80 quando la disoccupazione creò masse di sottoproletari emarginati urbani che traevano la loro unica consolazione nel bere, nell’andare allo stadio e soprattutto nel cantare insieme, per non sentirsi mai più soli. Insomma, You‘ll never walk alone non è uno slogan come I have a dream o come Yes, we can, perché trae le sue radici se non dalla disperazione certamente dall’emarginazione e dalla voglia di fare parte di un gruppo ristretto quanto reietto. Con una speranza: che non camminerai mai più solo perché noi siamo con te”.

I 12 “por qué”


8 maggio 2013, Stadio Giuseppe Meazza, Milano

Massimo Moratti ha commentato signorilmente la manifestazione della Curva Nord nerazzurra prima della partita con la Lazio (1:3): "Contestazione civile, li capisco. L’avrei fatto anche io. Ma certe risposte non so come darle. Per il resto anch’io penso la stessa cosa, dobbiamo avere più forza dal punto di vista societario". 

Questi gli interrogativi (si noti l’uso del Lei):
1) Secondo lei perché tutto lo stadio ha applaudito i recenti striscioni della Curva riguardanti la società?
2) Perché sono stati messi in discussione gli stessi medici con cui abbiamo vinto il Triplete?
3) Perché il progetto di svecchiare la squadra comporta la vendita dei giovani già presenti in rosa o provenienti dalla nostra Primavera?
4) Che senso ha svendere sempre i nostri giocatori?
5) 2010-2013. Dal tetto del mondo si è crollati alla situazione attuale. A fronte dell’esempio di altri club europei crede che la causa sia tutta da attribuire ai giocatori e allenatori di questo periodo?
6) Come mai la società è sempre passiva di fronte a ogni attacco mediatico?
7) All’Inter c’è sempre un colpevole da mettere in piazza e una fuga di notizie mai vista in altri club. Non sarebbe opportuno avere nella dirigenza un “uomo forte” capace di trasmettere il senso di appartenenza, gestire tutte le situazioni societarie e “mettere” la faccia” a difesa della società?
8) Perché non è mai stato spiegato il reale motivo dell’allontanamento di Oriali dalla Dirigenza?
9) Perché si dice che la società Inter sia come una grande famiglia quando la realtà è l’esatto opposto? Non si è accorto che tutti pensano a se stessi e alla propria poltrona?
10) Come si fa a permettere che la seconda maglia dell’Internazionale sia rossa se si è interisti?
11) Si diceva che il suo sogno era la Champions come suo padre… ora si dice che l’altro suo desiderio sia lo stadio nuovo… Va bene, ma l’Inter?
12) Perché chi va via dall’Inter parla sempre bene di Lei… ma male dell’Inter?

Evviva la Curva, quando si esprime in questo modo (e si sobbarca costi ingenti per farlo: 600 metri di stoffa e colori, 30.000 volantini …)! Niente violenze, ma l’incisività delle parole scritte, e non gridate in slogan squadristici.

Sono tutti interrogativi fondati, su questioni su cui anche Eupallog ha posto l’attenzione sin dalla fine dell’estate scorsa, all’inizio di questa sconcertante stagione: la perniciosa sopravvalutazione del Triplete [vedi], la sottovalutazione della necessità di un ricambio tempestivo e corposo dell’organico [vedi], l’incerta direzione tecnica [vedi], l’inutilità di fare di Stramaccioni il capro espiatorio in assenza di un progetto [vedi].

Eppure, tutto era profilato sin dal 1° settembre 2010, al termine della campagna acquisti e cessioni successiva al Triplete: Benitez, che aveva chiara in mente la necessità di rinnovare ampiamente un organico spremuto, aveva suggerito l’acquisto di Mascherano, Kuyt, Evra e Jovetic, ed ebbe Biabiany, Coutinho, Obi, Castellazzi e ceduto Balotelli. Risultato: il 26 settembre successivo l’Inter fu per l’ultima volta (a tutt’oggi) capolista …

E diciamolo subito: le voci di questa primavera 2013 sulle partnership finanziarie, quelle sulle ristrutturazioni dell’assetto societario, la conferma della vecchia e logora guardia (si rischia di ripartire nella “nuova” stagione ancora una volta da Cambiasso e Zanetti …), e i nomi dei giocatori che sarebbero già stati acquistati, non lasciano sperare in un’inversione strutturale di rotta. La patologia invalidante sembra continuare a fare il suo corso.

Giulio Andreotti


Roma, 14 gennaio 1919 - 6 maggio 2013

Uomo di grande intelligenza e non comune umorismo, è stato tra i principali protagonisti dell’Italia del Novecento. La sua biografia, in alcuni episodi anche controversa, appartiene ormai alla storia [Treccani]. E’ stato anche un grande appassionato di sport e di calcio, tifoso della Roma. Eupallog lo ricorda con il sorriso suscitato dalle sue famose battute.

Giulio Andreotti nasce a Roma nel 1919, lo stesso anno del fascismo e del Ppi di Don Sturzo: “Di tutti e tre sono rimasto solo io”.

Giallorosso dall’età di otto anni, ma “solo perché fino a quel momento la Roma non c’era ancora”.

“Nel calcio ho fatto una lunga carriera, non come giocatore, perché ero una schiappa, ma come tifoso. Dagli alberi al campo di Testaccio, sono finito alla tribuna d’onore”.

Il ricordo del vecchio campo Testaccio: “Di soldi a quei tempi ce n’erano pochi, ma le due lire per il posto dietro la porta le trovavo sempre. Si stava attaccati al campo, si viveva la partita come un sogno. Erano momenti di gioia intensa, i giocatori già allora erano idoli”. 

"Quando c’era educazione fisica a scuola mi allontanavo".

“Sono un tifoso, non sono né profeta, né uno che si mette in cattedra a dare lezioni a nessuno”.

"Ebbi solo un ruolo nel reingaggio di Falcao: quando chiamai la madre del giocatore e potei dirle, senza mentire, che anche il Papa aspettava suo figlio. In realtà, ricevendo la Roma, il Papa aveva domandato: ‘Ma Falcao rimane?’. Quindi non era del tutto una bugia, e la signora era stata contenta".

A un giornalista che faceva domande indiscrete sulla sua fede calcistica rispose così: “Lei mi chiede della Roma e io le dico che il finale è già scritto: ai tramonti seguono sempre le albe”. 

“Da parte mia c’è sempre stata una grande ammirazione per la famiglia Sensi, sono stati oltre che tifosi sempre sovvenzionatori dell’attività della squadra giallorossa. Loro tirano fuori i soldi, noi fischiamo o siamo felici per i risultati sportivi ma non spendiamo una lira”.

“Riguardo a Zeman non mi sembra carino continuare a chiamarlo “il boemo”. Evoca il ricordo della poesia del Giusti su Sant’Ambrogio con i soldati boemi e croati messi qui nella vigna a far da pali. Poco più avanti gli stessi militi sono chiamati: schiavi per tenerci schiavi. Di Zeman mister mi colpisce la teoria che non ha importanza il risultato, ma il giuoco. E’ la leggenda del barone De Coubertin secondo cui quel che conta è il partecipare. Sarà …”.

"Adesso spero solo che per il quarto scudetto non ci siano da aspettare tanti anni, perché non ho tantissimo tempo …": dopo la vittoria dello scudetto nel 2001.

Riconosceva ai laziali “solo i diritti umani”. Ma ebbe un figlio tifoso della Lazio. La prese con cristiana rassegnazione.

"Una volta tanto in vita mia sono contento che la Lazio abbia vinto una partita": dopo Lazio-Juventus del marzo 2001.

"Amo talmente la Germania che ne vorrei due".

Finale di Coppa dei campioni 1983 tra Amburgo e Juventus. Per chi farà il tifo? “Mi asterrò”.

"La Juventus era meglio in serie C. Ma anche in B, per un vecchio tifoso come me, è un po’ come la Rivoluzione francese": dopo la sentenza d’appello su Calciopoli nel 2006.

La sera in cui Byron Moreno mandò a casa Totti e l’Italia ai Mondiali 2002, si augurò “una finale Senegal-Corea contro il calcio dei ricchi”.

"Allenare davanti alla televisione è facile: io invece ho molto rispetto di chi gioca o fa il tecnico, perché le cose dal salotto o dalla tribuna appaiono più semplici di ciò che sono”: a commento delle dimissioni di Dino Zoff, dopo gli Europei del 2000, per le critiche ricevute dal presidente del consiglio dei ministri Silvio Berlusconi.

Quando il medico gli consigliò di fare un po’ di attività fisica, lui rispose: “Tutti i miei amici che facevano sport sono morti”. 

"Cosa vorrei sulla mia epigrafe? Data di nascita, data di morte. Punto. Le parole sono epigrafi tutte uguali. A leggerle uno si chiede: ma se sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi?".

Equilibrato profilo sul Guerin sportivo

Nella foto: Giulio Andreotti premia Angelo Domenghini (1972)

L’epidemia crociata


Primavera europea 2013

Sarà l’effetto di un passaggio astrale, o il solito processo di emulazione mediatica. Più probabilmente è il tessuto comune di stupidità, di ignoranza e di impunità che lega a distanza le bande più estremistiche degli ultras.

Fatto sta che nel giro di una settimana sono spuntate sui campi di gioco europei delle croci intimidatorie nei confronti dei giocatori delle squadre di appartenenza dei teppisti, che tacciano i primi di scarso impegno agonistico.

Dapprima quelli del CSKA hanno scavato una fossa e posto una lapide al centro del campo del Balgarska Armiya [leggi]. Poi è stata la volta di quelli del Macva Sabac, che milita nella terza divisione serba [leggi]. Per non farsi mancare nulla, anche gli ultras dell’Ascoli hanno infine decorato notte tempo il campo di allenamento dei loro ex beneamini con 11 croci (una a testa …) [leggi]. Attendiamo la quarta puntata …

La croce rappresenta per i cristiani un simbolo di sofferenza. L’uso sacrilego che ne fanno i teppisti fa leva anche sul perdono misericordioso di cui il cristianesimo è portatore. Immaginiamoci la reazione che verrebbe dai musulmani per un’offesa di portata analoga.

Pettine e rossetto


1° maggio 2013, Camp Nou, Barcellona

Innocenti evasioni


Aprile-maggio 2013

Questo ragazzo biondo - qui colto in una foto dei primi anni 1970s accanto a uno dei più amati pedatori della storia di Eupalla - è stato uno dei campioni della grande Germania di quegli anni. Molti chili fa era un’ala (oggi diremmo un attaccante esterno) di molta corsa e di buona tecnica, capace di terrificanti bordate a rete. Oggi è l’uomo più potente del calcio tedesco (ergo d’Europa), una sorta di Moggi in salsa bavarese. Come Lucianone ha qualche problema con la giustizia anche lui. È sotto inchiesta per evasione fiscale ed esportazione di capitali all’estero (al momento gli sono stati accertati 20 milioni nelle solite banche elvetiche). Il tafazzismo nazionale, nel suo angusto provincialismo, crede sia una specialità italica: in realtà è una pratica diffusa ovunque.

Hoeness ha appena pagato una cauzione di 6 milioni (una bazzecola: il decotto Milito, al lordo, continua a mungere di più annualmente al povero Moratti) per provare a scampare la galera preventiva. Pare che Frau Merkel si sia irritata un poco per il danno di immagine al moralismo tedesco. E così sono partiti i fumogeni per i media: prima l’acquisto di Goetze, poi quello di Lewandoski, a ore è atteso l’annuncio di Hummels. Ma il dato più scontato è la conferma che il bostik teutonico è effettivamente il migliore: Uli è ben attaccato alla carega di presidente del FC Hollywood e non ha alcuna intenzione di mollarla. D’altra parte, il suo compare Beckenbauer lo ha riciclato nella candeggina: “Uli ha sbagliato, ma non è un imbroglione” (ah, no?) [Leggi qui anche qualche bruscolo di cenere caduto su Rummenigge].

Se la Germania fosse un paese serio, Hoeness si sarebbe già dimesso. Ben altra serietà ha mostrato nelle settimane scorse il ministro delle Finanze francese, Jérôme Cahuzac, alfiere del moralismo del governo socialista che sostiene di combattere la ricchezza dei poveri ricchi come Zlatan: l’omesso dettaglio era che deteneva un bel conto in nero anche lui nei forzieri elvetici. Ma mentre Hoeness è reo confesso, l’algido tecnocrate franzoso ha pure fatto mostra di negare l’evidenza. Mettendo in ginocchio l’etica di una nazione già temprata dai gioielli di Bokassa, dalle tangenti di Chirac, dai finanziamenti illeciti di Sarkozy.

I concives del nord Europa dovrebbero prendere esempio da Equitalia Sud. Tenace, non deflette alle reiterate richieste di Diego Armando di negoziare la sua bella evasione di 40 milioni (a memoria non ricordo a quanto ammontasse quella di Zico …) con il fisco italiano, cioè con i nostri portafogli. Al massimo è disposta a concedere una rateizzazione. La serietà dell’etica partenopea.